Lui è Matteo G.P. Flora, fondatore di The Fool, la società Leader italiana per la Reputazione Online e per la Tutela di Reputazione ed Asset Digitali, oltre che fondatore della Holding tecnologica Samadhi. Sul suo sito si presenta così: “Hacker, ho fondato una Reputation Company ed una UX Agency. Mi occupo di Reputazione, Forensics e IP Protection tra Dharma & Data”, noi lo abbiamo interpellato per esplorare meglio alcuni aspetti cruciali dell’esperienza nella variegata e variopinta giungla del web.
La Rete è un ambiente che frequentiamo ogni giorno, pienamente parte della nostra esperienza di vita: quali pericoli si nascondono in questa “giungla virtuale” e su quali strumenti possiamo contare per garantire la sicurezza e il monitoraggio circa quanto accade nel web?
Esiste una realtà incontrovertibile: ciò che diciamo e facciamo su Internet non ha lo stesso peso e le stesse conseguenze che avrebbe nella vita reale. Molte persone, oserei dire la stragrande maggioranza, non possiede dunque la percezione del baratro. Ci si deve rendere conto che quanto viene “detto” su Internet rimarrà nei secoli dei secoli, tutto il mondo potrà visualizzarlo e lo ritorcerà contro di noi. Un esempio particolarmente calzante è quello di Justine Sacco, una ragazza che prima di partire per l’Africa scherza su Twitter sul fatto che non prenderà malattie per il solo fatto d’essere bianca. Ecco, atterrata all’aeroporto ha rischiato il linciaggio. Avrebbe potuto evitare l’attacco che ha ricevuto? Si. Recepire come utilizzare correttamente il Web può evitare dei faux pas clamorosi. Questo è un esempio di crisi originata dal soggetto, ma vi sono situazioni in cui subiamo la reputazione che ci affibia qualcun altro. In questo caso il monitoraggio è essenziale per scoprire per tempo i possibili problemi. Esistono degli strumenti appositi, noi a The Fool usiamo uno dei migliori, ma senza la presenza d’analisti competenti sono inutili e perfino dannosi. Ascoltando la Rete ed analizzandone i contenuti e le informazioni che ci restituisce per agire, meglio se preventivamente, si può alzare il livello di sicurezza.
La comunicazione virtuale ha visto intensificarsi negli ultimi tempi toni sempre più aggressivi e violenti: quali sono le ragioni di questa degenerazione e in che modo è possibile agire per arginarla?
Innanzitutto, c’è stata una degenerazione dell’Odio Online oppure è solo aumentata la nostra percezione del fenomeno? Analizzando 42.000.000 post su Twitter ed Instagram, da Maggio 2008 a Giugno 2017, ho scoperto che c’è stato un picco tra il 2012/2013, ma che attualmente l’andamento è discendente. Curioso, no? Forse no, se ci soffermiamo sul fatto che la percezione dell’Hate Speech è cresciuta da quando la stampa tradizionale ha iniziato a subire aggressioni verbali sotto i propri articoli (tanto sui siti web quanto su Facebook). Fra le tematiche sensibili ho rilevato principalmente misoginia, omofobia, razzismo, antisemitismo e disabilità (leggetevi le infografiche di Vox se siete interessati). Quali ne sono le cause? Sicuramente non ne esiste una sola. L’ascesa delle destre estreme? La propaganda politica scorretta (su tutti i fronti)? La percezione della normalizzazione della violenza? Soffermandomi sulla misoginia ho scoperto che la fascia d’età che più utilizza epiteti violenti contro il sesso femminile è quella degli adolescenti, in percentuale un 45% donne e un 55% uomini. Una differenza minima. Gli adolescenti, di solito, rappresentano quella fascia d’età che più utilizza Internet, dal quale assorbono tutto quello che trovano. Una delle “soluzioni” attivate per contrastare questo fenomeno è stata la demonetizzazione di quei video Youtube contenenti espressioni d’odio. Seguita, poi, dalla decisione di reindirizzare la ricerca degli stessi verso video di sensibilizzazione. Una soluzione cuscinetto, ma che comunque presenta una serie di problematiche etiche: chi decide quali contenuti “spegnere”? Chi decide verso cosa reindirizzare?
Cosa separa il marketing dalla reputazione online e quali sono gli errori principali che i brand tendono a commettere nella realizzazione di una campagna di comunicazione?
Il Marketing tende a cercare d’attirare l’attenzione del pubblico verso un determinato prodotto, con un approccio solitamente “Guarda questo prodotto! È bellissimo, migliore degli altri, e non puoi non averlo! Compralo!”. Al contrario, la Reputazione ha come scopo ultimo quello di proteggere. Steven Nock diceva: “La reputazione è una condivisa o comune percezione rispetto a una persona, un brand o un prodotto costituita dall’insieme de discorsi tenuti su d’essa dalla totalità dei soggetti (individuali e collettivi) coinvolti nella sua generazione”. Gli utenti parlano di Brand, Persone e Prodotti originando uno storytelling parallelo a quello creato da noi, e che noi subiamo. I consumatori scelgono sulla base della percezione che ricevono dall’ambiente circostante (es: comprerò Coca-Cola piuttosto che Pepsi perché N utenti hanno detto che è buonissima). Spesso i Brand, nelle loro campagne di comunicazione, tendono a non dare il giusto peso ad aspetti che vanno ad impattare sulla Reputazione. Scelgono una comunicazione che pregiudica l’immagine di competenza dell’azienda nel settore in cui opera; manipolano la verità, ad esempio vantandosi del fatto che la composizione di un prodotto alimentare sia rimasta invariata dall’inizio del secolo ad oggi (no, sicuramente non è rimasta invariata, e qualcuno lo farà notare); non curandosi dell’evolversi delle tendenze nel tempo, ciò che oggi è una nicchia di mercato che non c’interessa potrebbe diventare un segmento allettante in futuro. Quindi state molto attenti quando pensate di fare campagne che ironizzano su una certa fascia di popolazione o su determinate tendenze, potrebbero diventare la vostra ancora di salvezza.
Il proliferare delle fake news minaccia di incrinare pesantemente la credibilità dell’intero sistema di informazione a livello globale: in che modo si favorisce la costruzione di un ecosistema sano e virtuoso?
Prima di tutto, convinciamoci del fatto che le Fake News sono sempre esistite, soprattutto in politica. Perfino Napoleone manipolava le informazioni per sviare l’attenzione verso argomenti di suo specifico interesse. Poi è arrivato Goebbels ed il sistema è stato ulteriormente perfezionato. Ciò che colpisce non è tanto la manipolazione dei messaggi, quanto il fatto che la stampa tradizionale ha perso credibilità e la fiducia dei lettori a causa della continua creazione di contenuti sempre più allarmistici, sensazionalistici e slegati da fatti reali. Hanno prediletto l’inseguimento di click e view piuttosto che la cura dei contenuti. Dunque, per sopperire alla mancanza d’informazioni ritenute “veritiere” è sorto il fenomeno delle Grassroot News, blog e fonti alternative che, nella maggior parte dei casi, non eguagliano l’introspezione e la capacità analitica del giornalismo di qualità. Ad accrescere il problema si è aggiunto il concetto di post-verità: quando una menzogna viene ripetuta (e condivisa) più volte, acquisisce naturalmente lo stato di verità assoluta. Se l’ordine dei giornalisti iniziasse ad adottare una politica di tolleranza-zero verso coloro che all’interno della categoria sfruttano il qualunquismo e la faciloneria per ottenere visibilità allora, e solo allora, il fenomeno del citizen journalism ne uscirebbe ridimensionato. Credo che questo sarebbe più efficace del porre semplicemente veto e meccanismi di dissuasione nei confronti del giornalismo fai-da-te.
Che tipo di variabili entrano in gioco nel determinare la viralità di un contenuto?
L’anno scorso mi sono auto-proclamato cavia da laboratorio per un piccolo esperimento sociale. Ho usato il mio account personale di Facebook per cercare di capire quali tipi di contenuti risultavano più virali di altri. Cosa ho scoperto? Sono le immagini a trascinare la viralità di un contenuto. Il topic è importante, così come il Gunning-Fog scelto, ma fungono più che altro da contorno. L’immagine cattura l’attenzione e la sposta sulla parte testuale del messaggio. Di conseguenza, più un’immagine avrà appeal più il post diventerà virale. Ma non basta. Nell’epoca del Marketing 3.0, i valori trasmessi dal mio contenuto e l’impatto emotivo che genera sono fondamentali per trascinare l’audience. Ma attenzione, il contenuto deve risultare chiaro, onesto e diretto, altrimenti la Rete se ne accorgerà e reagirà di conseguenza, perdendo fiducia in quel Brand o Persona, come è accaduto per I giornali.
Gli argomenti di attualità rappresentano un terreno scivoloso per i professionisti della comunicazione, dai blogger, che rischiano di perdere pubblicità, fino agli stessi brand: come è possibile conciliare le esigenze di onestà intellettuale con le dinamiche proprie del digital advertsing?
Quando si vuole cercare di sfruttare temi d’attualità per la propria campagna pubblicitaria bisogna stare molto, molto attenti. Infatti, è ormai abbastanza assodato che tutti i contenuti controversi o opinionated possono aprire il fianco a stoccate reputazionali forti. Potreste venire investiti da quello che, in gergo, chiamiamo uno shitstorm, ovvero un attacco al Brand, alla Persona o al Prodotto da parte del Web. Alcuni suggerimenti pratici? Cercate di non utilizzare distinzioni di genere se innecessarie (se vendete un prodotto per la casa evitate d’indirizzarvi apertamente solo alle donne. Potreste essere tacciati di sessismo). Non fate riferimento all’orientamento sessuale (Barilla e Mediaworld insegnano). Non usate riferimenti razziali o religiosi (se vendete un prodotto Kosher, ad esempio, basta dichiararlo come tale, bandite la parola “ebreo”). Diversificate l’immagine delle modelle che andrete ad utilizzare (non tutte magre, non tutte grasse, non tutte con il naso acquilino ecc… L’equilibrio è la chiave di volta). Infine, siate onesti, manipolare le informazioni ed utilizzarle in modo creativo sono due cose estremamente diverse.
Elisabetta Pasca