Un cuoco su di un palco, intento a cucinare. In sottofondo, una musica che accompagna ogni suo gesto. Alle spalle, uno schermo dove scorrono immagini di luoghi bellissimi e selvaggi, volti di adulti e anziani intenti a preparare piatti antichi come l’uomo o impegnati a raccontare che cosa significa, oggi, tentare di portare avanti un certo tipo di cucina. È questo il mondo che trovate nelle esibizioni di Daniele de Michele, alias Don Pasta, dj, economista, appassionato di gastronomia. Ma a ciò si potrebbe aggiungere filosofo della buona tavola e cultore della dieta mediterranea, oltre che poeta della democrazia, attore, divulgatore, ricercatore e stimolatore della biodiversità culturale. Senza dimenticare “attivista del cibo”, come l’ha definito il New York Times. Quattro libri alle spalle (l’ultimo, “Artusi Remix”, ricettario popolare alla maniera di Pellegrino Artusi), uno in uscita e una serie infinita di spettacoli itineranti in giro per l’Italia, la Francia e la Spagna, Don Pasta è un individuo poliedrico, in perenne attività e continuamente curioso di apprendere i segreti della cultura gastronomica del passato, quella dei nostri nonni per intenderci, figlia di riti antichi e obbedienti ai ritmi della natura e del mondo.
Partiamo dall’inizio, dalle origini: qual è stato il percorso che ti ha condotto fin qui? Quali sono stati i motivi e le esperienze che ti hanno portato a diventare Don Pasta?
Sin da ragazzo facevo il dj, prima nelle feste in Salento, poi a Roma da studente. Ho sempre conservato questa grande passione per la festa, probabile retaggio della nostra cultura mediterranea. In Salento, questa idea di festa è sempre stata inscindibile dal cibo, inteso come rito del cucinare e dell’offrire. Don Pasta è nato per gioco nel momento in cui le due cose si sono unite, appunto in feste in cui mi misi a cucinare e a far musica. La cosa funzionava più di quanto immaginassi e quindi Don Pasta è diventato il mio vero alter ego.
Dai libri che hai pubblicato agli spettacoli che porti in giro per l’Italia (e non solo), emerge la volontà di riportare l’attenzione su un tipo di cucina – quella che fa parte dell’ossatura popolare della cultura gastronomica italiana – oggi un po’ sepolta da altre mode. Perché secondo te è così importante recuperare il rapporto con la tradizione di questi piatti?
Essendo un grande appassionato della cucina di mia nonna, generosa, profumata, sapiente, piena di perizia, ho sviluppato sempre di più una grande passione per la cultura gastronomica popolare. Mi interessava, anche da economista quale sono, che fosse possibile conservare un sapere accessibile a chiunque e non ad appannaggio di pochi sapienti. Abbiamo la fortuna di avere una cucina popolare che ci invidiano in tutto il mondo, figlia di un sapere collettivo che non mi pare il caso di perdere a causa di mode che durano una stagione e che non apportano nessuno sostanziale progresso per la società nel suo complesso.
Alcune delle tue scelte potrebbero quasi essere “contro-corrente”: mentre esplodono la dieta salutista e vegana, tu hai fatto tua una battaglia che, tra le altre cose, si basa su un ingrediente come lo strutto. Pensi che tra le tendenze alimentari attuali (salutista e vegana dunque) possano esserci degli elementi che riescano a conciliarsi con la tua idea di cucina?
Lo strutto è una boutade, una provocazione che permette di mettere in evidenza una cosa molto semplice: nel mondo popolare si costruiva un equilibrio alimentare e produttivo rispetto a se stessi e rispetto alla terra e gli animali. Mi piace ricordare che la demonizzazione dello strutto fu una semplice operazione commerciale per far entrare la margarina sul mercato. Sappiamo tutti come è andata a finire. Lo strutto non lo usa più nessuno perché si dice in giro che sia pesante, mentre la margarina è la causa di malattie e problemi di salute ormai appurati. Poi ci si dimentica come per incanto che lo strutto ha il punto di fumo più alto nella frittura e risulta a tutti gli effetti il meno cancerogeno dei grassi per friggere. In un certo senso, cerco di mostrare i paradossi della semantica gastronomica applicata al mercato.
Nei tuoi spettacoli itineranti, utilizzi diversi mezzi di comunicazione: parole, musica, immagini e video, il tutto mentre sei intento a cucinare sul palco. Cosa accomuna questi mondi che compongono le tue esibizioni? Qual è il messaggio che vuoi far arrivare attraverso di loro?
Che il cibo è la cosa più semplice al mondo, la cosa di cui parliamo di più. Che cucinare e mangiare si fa tre volte al giorno ed è bene che lo si faccia sanamente e con gusto, senza troppe menate. Che non basta esser un cuoco per saper cucinare. Per farlo uso tutte le mie passioni, come la musica, le immagini, il teatro, in modo che tutto diventi ritmato e divertente.
Tra le tue ultime esibizioni c’è quella fatta al Cinema Palazzo di Roma con l’Orchestra Notturna Clandestina, dove hai presentato il tuo lavoro video “Artusi Remix”, frutto di un viaggio “alla ricerca di persone che raccontino la cucina italiana come metafora dei mutamenti del Paese”. Cosa è emerso da questa tua esperienza? Cosa ti ha colpito maggiormente delle persone e delle storie che hai incontrato nel tuo percorso?
Il viaggio che ho fatto e continuo a fare in giro per l’Italia nei luoghi più reconditi è alla base di ogni mia ricerca sul cibo e direi sulla società in generale. Ho incontrato donne e uomini che nel cucinarmi qualcosa hanno mostrato l’intelligenza, l’ingegno, l’etica, il senso di responsabilità rispetto alla propria terra e al proprio mare, elementi di cui ci sarebbe tanto bisogno per salvare questo Paese.
Un tuo parere su come viene comunicata oggi la cultura del cibo e della cucina in tv: cosa pensi dei vari programmi, talent show e chef che popolano il piccolo schermo?
Penso che questi programmi spostino l’informazione dal senso più intimo o profondo che ogni italiano ha sul cibo (che è il senso di condivisione, parsimonia e piacere) a un’astratta e narcisistica idea della cucina, uguale in tutto il mondo, come frutto di perizia tecnica, avulsa dalla propria storia. Se fosse una piccola iniziativa non ci troverei nulla di male. Essendosi imposta come massima espressione dell’idea di food in Italia e nel mondo, penso che abbia delle conseguenze nefaste sul senso identitario che la cucina ha per ora veicolato nella cultura popolare italiana.
Cosa c’è nel futuro di Don Pasta? Quali altre iniziative vorresti realizzare?
Sto lavorando da un po’ di tempo a un film che racconti il mio viaggio nelle cucine degli italiani. Un riassunto di questi incontri che mi hanno arricchito così tanto e che penso arricchirebbero chiunque.
Lucia Mancini
ph: Cristina Zuppa
ph: Tamara Casula