Non c’è lavoro? Nessun problema, ci si sposta. I numeri parlano chiaro e smentiscono lo stereotipo degli italiani mammoni morbosamente attaccati alla propria terra d’origine. Secondo i risultati dell’ultimo Kelly Workforce Index, l’indagine condotta a livello mondiale sulla propensione dei lavoratori al trasferimento finalizzato all’occupazione, infatti, l’81% degli italiani si dichiara disponibile a valutare opportunità lavorative in altre città, mentre il 67% non esclude la possibilità di abbandonare il “bel paese” per trasferirsi all’estero. Lingua e abitudini distanti dalle proprie non spaventano, fa molto più paura la prospettiva di lunghi trasferimenti quotidiani tra l’abitazione e la sede di lavoro. Solo l’8% accetterebbe percorsi che superino i sessanta minuti. Un messaggio chiaro quindi: meglio un’altra città piuttosto che avventure quotidiane nella giungla metropolitana in auto o sui mezzi pubblici.
La Kelly Service, azienda leader nella fornitura di servizi per le risorse umane, ha compiuto questa indagine su un campione di 115 mila persone in trentatré paesi, tra cui ovviamente l’Italia. L’analisi evidenzia che le abitudini e la propensione alla mobilità per il lavoro si stanno rapidamente adeguando alle nuove esigenze della globalizzazione dei mercati.
Negli ultimi decenni, infatti, il mercato del lavoro ha subito profondi cambiamenti. Le recenti esigenze internazionali hanno portato alla nascita di una nuova generazione di lavoratori che ha completamente smarrito quel sentimento, tipico in passato, di radicamento territoriale.
Addio campanilismo lavorativo? Non esageriamo. Se da un lato quattro lavoratori su cinque si dichiarano disponibile a spostarsi ed i due terzi degli intervistati auspicano un trasferimento all’estero, nella realtà solo una persona su due ha effettivamente cambiato città per lavoro e solo una su quattro ha varcato i confini nazionali.
Le maggiori discrasie emergono dal punto di vista geografico. Sono gli umbri i più volenterosi di cambiare Paese, l’86% degli intervistati. Restii invece i friulani con appena il 59%. Grande propensione umbra anche di fronte alla prospettiva di cambiare città. Quasi un plebiscito, il 99% ha risposto positivamente all’idea di un trasferimento. La percentuale crolla invece in Puglia: sei persone su dieci affermano di voler vivere e lavorare fino al pensionamento nella propria regione. Scarsa volontà anche in Trentino Alto Adige: solo il 34% accetterebbe di spostarsi per lavorare.
Poche sorprese circa i motivi che trattengono le persone nella città d’origine. Secondo la classifica della Kelly Service l’ostacolo principale è la famiglia. In Italia il 60% dichiara di non essere disposto ad allontanarsi dai propri cari, in linea con il dato globale. Negli altri Paesi, infatti, la famiglia costituisce un freno per il 62% dei lavoratori. Altri freni alla mobilità sono la differenza di lingua (37% in Italia, 21% globale), i problemi legati al possesso di immobili (19% da noi, 20% globale) e le questioni legate a particolari regimi fiscali (4% in Italia, 12% globale). Inoltre il 5% degli italiani si dichiara timoroso di perdere i diritti pensionistici maturati nel corso del proprio percorso professionale. Una paura che all’estero coinvolge il 10% degli intervistati.
In Italia in grande aumento il numero dei pendolari. Secondo l’ultima indagine del Censis nel 2007 sono diventati tredici milioni contro i dieci del 2001. Il pendolarismo è diffuso soprattutto al nord, in Lombardia. Circa il 30% della popolazione delle provincie di Como, Lecco, Varese, Lodi e Bergamo si muove ogni giorno in direzione Milano, la città più interessata agli spostamenti quotidiani sia in entrata che in uscita, un fenomeno che coinvolge circa 500.000 persone. Seguono Roma, Torino, Napoli, Firenze e Bologna.
Ultimamente l’alta velocità è intervenuta per migliorare la vita di coloro che impiegano due ore ad andare e due ore a tornare dal posto di lavoro. Spesso infatti gli orari sono imposti da Trenitalia piuttosto che dal datore di lavoro. I viaggi durano meno ed oggi si risparmia circa un quarto d’ora su ogni viaggio, ma la situazione lungi dall’essere risolta. Rimangono i problemi di sempre, su tutti il ritardo cronico dei convogli. Basta poco per accumulare minuti preziosi: una sosta un pò più lunga su un binario o l’obbligo di precedenza verso i treni più veloci. Oltre al tempo, circa 600 ore in media da trascorrere sui vagoni dei treni ogni anno, il principale problema di una vita da pendolare è l’elevato costo. Si calcolano oltre 1.000 euro di spesa annua per ciascun lavoratore pendolare. Alcuni optano per scelte drastiche. Desiderosi di non sottostare agli orari e ai ritardi dei treni, stracciano la tessera delle Ferrovie dello Stato e scelgono la propria auto per i lunghi spostamenti giornalieri. In questo caso però la situazione non migliora. I costi rimangono elevatissimi ed i continui rincari del petrolio non promettono niente di buono in futuro. Inoltre c’è da considerare anche l’incognita traffico che può causare grandi disagi dal punto di vista fisico. Ore e ore trascorse imbottigliati tra una macchina e l’altra comporta un elevato tasso di stress che di certo non giova alla salute.
Da non trascurare nemmeno il cosiddetto pendolarismo invisibile. Secondo una ricerca della Svimez sono circa 150.000 le persone che lavorano stabilmente al centro-nord pur risiedendo nel Meridione. Ogni fine settimana sfruttano voli low cost e treni ad alta velocità per tornane nella terra d’origine. Un fenomeno che coinvolge soprattutto gli uomini, il 75%, ed i giovani neolaureati, il 58%. Spesso è la precarietà che porta a scelte non definitive ma, nella maggior parte dei casi, la decisione di non abbandonare del tutto famiglia e amici a casa si giustifica con la speranza di tornare stabilmente, prima o poi, nella propria città di nascita.
Walter Astori