L’11 e il 12 maggio Roma diventerà ancora una volta l’epicentro del Coaching in Italia: ritorna infatti nella Capitale il Master della Professional Coaching School di Marina Osnaghi, la prima Master Certified Coach in Italia, aperto a dirigenti, manager, consulenti e professionisti di varia natura, che desiderano sviluppare competenze di coaching da impiegare sia in azienda sia sul mercato. Punto di riferimento a livello internazionale, Marina Osnaghi guiderà i professionisti verso il raggiungimento dei propri obbiettivi anche attraverso costanti webinar e iniziative mirate ad acquisire le giuste competenze sia dal punto di vista umano sia dal punto di vista lavorativo. L’abbiamo intervistata per approfondire il suo approccio e conoscere le molteplici sfumature di una professione sempre più in ascesa come il coaching.
Oggi Marina Osnaghi è una master coach stimata e dalla comprovata esperienza: come è iniziata la sua avventura nel campo del coaching?
All’inizio della mia storia c’è la libera professione, io ho iniziato lavorando per il Gruppo Rinascente. Ero molto giovane, si trattava del tipico impiego per arrotondare e pagarsi le vacanze, sono partita dal reparto giovani e poi sono andata avanti, assumendo nel tempo degli incarichi diversi. Era la Rinascente di Piazza Duomo, un luogo iconico. Poi il tempo è trascorso, ho terminato i miei studi e ho portato avanti la mia esperienza fino a quando, per via del mio carattere, mi sono accorta che non mi bastava, avevo voglia di fare anche altro. Così ai tempi ho creato un accordo con alcuni importanti marchi e ho aperto una mia piccola azienda che si occupava di distribuire articoli destinati a un pubblico giovane, secondo le modalità che poi sarebbero decollate completamente con l’esplosione degli outlet. Sono stata una specie di pioniera degli outlet odierni, se così possiamo dire. Ho un passato nell’imprenditoria, dunque. Poi, improvvisamente, durante una vacanza, ho incontrato il coaching. Mi trovavo a uno snodo cruciale della mia vita e quando ci si imbatte nel coaching in un momento del genere non può che andare a finire nel miglior modo possibile. In un primo momento, quando una persona si è presentata dicendomi “faccio il coach”, istintivamente ho risposto: “Co- che?”. Stiamo parlando di più di vent’anni fa, era una novità assoluta. Però ho voluto provare. Mi ricordo che, essendo curiosa per natura, ho perseguitato questa persona per farmi spiegare ogni cosa nei dettagli. Ho iniziato facendo sessioni di coaching personali, per potenziarmi, per risolvere una serie di problematiche e perfezionare determinati comportamenti che non andavano bene. È stata la decisione più fortunata della mia vita, perché l’ha cambiata in una maniera molto felice. Dalle prime sessioni di attività, ho capito che la mia avventura imprenditoriale era ormai agli sgoccioli, non avevo più nulla da imparare e avevo voglia di un ricambio. Così ho cercato una scuola di coaching, con un metodo europeo a mio avviso molto valido, che poi ho portato in Italia, prima di abbandonarlo per aprire la mia scuola.
Dunque la formazione è un nodo cruciale?
La formazione è un punto nevralgico, io studio ancora adesso, non ho mai smesso. Il coaching fa ancora parte delle nuove professioni, offre molti sbocchi e può dare buoni guadagni. Inoltre si tratta di un tipo di lavoro che aiuta anche gli altri nell’approccio alle professioni del futuro. Il coaching aiuta a sviluppare quella capacità di innovazione e quella flessibilità che permettono di fare un salto, uno scatto in avanti. Il mio lavoro non è certo una passeggiata. Purtroppo vedo ancora tanta, troppa, approssimazione.
Quali sono le caratteristiche che definiscono un buon coach?
Le caratteristiche per essere un buon coach sono attitudinali e umane, ma per essere un bravo professionista in questo settore occorre avere tanta voglia di studiare, di prepararsi, di essere tecnicamente competente. Se si possiedono attitudini alla comunicazione e alla disponibilità verso le persone, se si è dotati di pazienza e coraggio – perché ci vuole coraggio per dare a una persona un feedback di miglioramento – ecco che si hanno a disposizione delle caratteristiche essenziali per intraprendere il percorso per diventare coach. Il coach deve essere molto predisposto all’ascolto, con una visione profondamente oggettiva. Tutto questo si può allenare e ogni coach ha il suo stile, ma il metodo deve essere comprovato.
Cosa implicano le attività di coaching e come si articola la giornata tipo di un coach?
Il coaching implica anche cambiamenti comportamentali, sfida la persona, per cambiare anche potentemente i propri comportamenti. In una giornata tipo di coaching individuale, abbiamo sessioni giornaliere che possono durare dai 60 minuti alle 2 ore: se si inizia molto presto la mattina, si possono fare 2 sessioni da 2 ore con una pausa in mezzo per respirare e poi farne altre due nel pomeriggio. Un coach esperto riesce a reggere questi ritmi, anche perché il coaching nutre lo spirito e la mente; infatti, durante la sessione, la persona offre la parte migliore di se stessa. Certamente non è possibile lavorare in questo modo tutti i giorni, sono richieste tantissimi energie, perché si vanno a incontrare comunque tutte le resistenze degli interlocutori, che vanno sfidati e accompagnati verso il cambiamento che vogliono fare. Il coach allena e sfida al cambiamento. A volte la persona non vede alcuni aspetti, per cui è compito del coach individuare determinati elementi e portarli all’attenzione, per richiedere un feedback e favorire il cambiamento. Con il coaching, ognuno può diventare più forte, equipaggiato, più bravo nella vita. L’effetto collaterale del coaching, lo metto per iscritto, è la felicità. Un coach può anche effettuare interventi di gruppo all’interno delle aziende, con sessioni di mezza giornata o di un giorno intero. Se si gestiscono progetti complessi c’è anche una grossa fase di progettazione, ma non tutti i coach possiedono la qualifica per questo, si tratta di competenze che si acquisiscono col tempo e con lo studio.
Dalle aziende alla politica: quali sono i consigli di una coach a chi è impegnato a lavorare per le sorti del Paese?
Il punto è che chi ha vinto oggi potrebbe perdere domani, soprattutto in un sistema come quello italiano. Il potere politico oggi è più frammentato di un tempo. Con questo bisogna fare i conti. Per cominciare, consiglierei ai vincitori di non cancellare tutto il pregresso, solo perché è stato costruito da altri. Occorre capire cosa tenere, cosa cambiare e cosa innovare, non cosa buttare. Capire i progetti di un altro è importantissimo. Bisogna sforzarsi di comprendere per poter dare poi il proprio contributo. Ai perdenti consiglierei di non lasciarsi andare allo sconforto e di continuare partendo dal presupposto di restare comunque convinti delle proprie idee. Ci si deve chiedere da cosa può essere scaturita la sconfitta: probabilmente qualcosa nella strategia poteva essere pensato meglio e ora è necessario fare tesoro degli errori del passato per ripartire con più slancio. Io vedo un abitudine non salutare: quella della critica costante. Si dice troppo spesso che gli altri hanno sbagliato, gli altri non hanno fatto. La sola critica non dà una buona espressione della guida politica del nostro paese in questo momento. Un bravo statista non ha come obiettivo quello di criticare gli avversari, ma ovviamente di portare avanti i propri progetti. In questo ambito così delicato, lo dico ai più giovani, è necessario avere alle spalle una grande cultura politica. La storia del nostro paese è da conoscere e da rispettare: anche questo è importante per un buon leader.
Su cosa è necessario puntare maggiormente per ottimizzare il rapporto tra un capo e i suoi dipendenti, per garantire l’efficienza del lavoro?
Io mi sento dire spesso che in alcune realtà aziendali la comunicazione non funziona. Quando entro in azienda tutti hanno fretta, si fanno pochissime domande e gli attori in gioco non hanno metodo per incontrarsi per parlare e scambiare punti di vista. Se un capo vuole essere amato dai suoi dipendenti e viceversa, il capo deve impostare una struttura a supporto del raggiungimento degli obiettivi e, dall’altra, il collaboratore deve essere disponibile a prendervi parte. Bisogna sempre essere aperti a farsi domande: spesso il coach interviene in questo senso, per colmare questi vuoti e stabilire dei piani di comunicazione coerenti in tempi adeguati. Bisogna cambiare delle abitudini: spesso in un confronto si è portati subito a ribattere con la propria opinione, invece è più salutare domandare per capire di più e magari fare anche un riassunto. Se il capo stabilisce dei momenti di coaching e di management è di grande aiuto: i collaboratori hanno bisogno di feedback, indicazioni per poter lavorare meglio. Non è una scusa per fare da balia, ma un rapporto tra adulti nella realizzazione di una prestazione. Ci deve essere anche un mix tra un capo di consenso e un capo direttivo: l’approccio deve essere modulabile per funzionare.
Elisabetta Pasca